Educare alla diversità e ai talenti
Secondo Raffaele Morelli, “la peggiore educazione è quella che ti porta a diventare gregge”. Se il nostro unico obiettivo, come genitori, è quello di inserire i nostri figli in società, stiamo creando degli automi, uno uguale all’altro e soprattutto infelici. Questo concetto vale anche per gli educatori professionali che lavorano in istituzioni, cooperative e associazioni che si prendono carico di minori stranieri, adolescenti devianti, adulti con problemi di dipendenza. Per portare queste persone alla piena realizzazione di sé all’interno della società, non possiamo limitarci a vedere soltanto regole, divieti e obblighi (come ho già spiegato in questo articolo). Altrimenti il nostro intervento educativo fallirà.
Nei mestieri di relazione non ci si inventa. O si rischia il burn out.
Ognuno è diverso e necessita di essere visto per quello che è. Per fortuna, tra i miei studenti universitari raramente intravedo persone che non hanno nulla a che vedere con il mestiere di educatori professionali. Quasi nessuno si trova lì perché è stato obbligato dai genitori, o in mancanza di meglio. La vocazione li metterà più al riparo dal burn-out, perché nei mestieri di relazione non ci si inventa.
Siamo noi la guida e il punto di riferimento
Nella relazione d’aiuto ci si mette in gioco tutti i giorni. Non si può arrivare al lavoro nervosi e incattiviti per un week end andato male. Fingere è impossibile: i mestieri di relazione, come quello degli educatori professionali, si basano sull’autenticità, sull’essere pienamente se stessi perché l’altro ci possa vedere per quello che siamo realmente, con i nostri limiti e i nostri punti di forza. Siamo noi la guida, il punto di riferimento. Siamo noi a dover cogliere nell’altro i talenti, anche sotto le etichette che la società impone (come ho spiegato qui). Siamo noi a dover essere capaci di vedere Paolo non come “quel drogato” ma come un “ex drogato”, una persona in evoluzione verso la scoperta dei lati migliori di sé.
Lo sguardo di un educatore sa vedere l’altro
Siamo chiamati a vedere i lati positivi dell’altro e a dargli valore. “Io ti vedo” è la frase che gli occhi degli educatori capaci sanno rimandare ai loro ragazzi: significa che sanno vedere ciò che altri non vedono, ossia i talenti e i punti di forza, a volte nascosti da comportamenti aggressivi o devianti. Vedere gli altri per quello che sono, dietro le maschere, non è necessario solo nelle situazioni di disagio e difficoltà. È una competenza che possiamo mettere in campo sempre e ovunque, nella nostra vita privata e professionale.
Creare ambienti in cui le persone si sentano libere di esprimersi
Quando indossiamo questi occhiali e posiamo sugli altri questo sguardo, le persone si sentono libere di esprimersi: percepiscono di essere in un ambiente aperto e a contatto con persone che non li giudicano, ma li incitano a trovare la loro strada. Interroghiamoci tutti, un attimo in più, sulle nostre maschere e le nostre fragilità. Sapere che siamo in qualche modo “limitati” ci rende meno schiavi di una presunta perfezione. Ci aiuta a smettere di vedere in noi solo pregi e negli altri solo limiti e difetti.


