Imparare dagli errori: un’opportunità preziosa, in famiglia e in azienda

Nessuno è perfetto: tutti facciamo errori, nella vita e sul lavoro. E subito arriva qualche censore ad accusare chi ha sbagliato. Di solito, il censore è un essere perfetto calato da un pianeta lontano, che ci scruta con la lente d’ingrandimento alla ricerca delle cause. Ma è giusto fissarsi sugli errori? Come si può imparare dagli errori? Di solito, quando si sbaglia, le emozioni non aiutano: dai sensi di colpa, alla rabbia, all’autocommiserazione, niente di quello che sentiamo ci aiuta a “stare” in quella situazione.

Invece, ecco quello che serve: tornare su ciò che è accaduto, capire cosa ci ha portato a sbagliare e trovare degli orientamenti per fare meglio. A forza di rivedere e analizzare i nostri comportamenti, possiamo scoprire alcune costanti su cui intervenire. Ad esempio, se siamo stati troppo frettolosi e superficiali, possiamo imparare a riconoscere che la fretta compromette il risultato, quindi organizzarci per non esserne continuamente preda. Oppure, se un errore è causato da un’emozione negativa (ad esempio la rabbia), possiamo imparare a posticipare le risposte, a concentrarci sui dati di realtà e a prendere le distanze da chi ci appare, in quel momento, come un provocatore.


Sbagliando si impara, sia nello studio che nel lavoro

L’importanza di sbagliare è al centro dell’approccio di Franca Moretti, musicoterapeuta e formatrice, Presidente di Indaco Atelier di ricerca musicale ed espressiva, onlus di Reggio Emilia. Franca è una persona di cuore e di grande esperienza, che invito da un paio d’anni al corso di Sociologia dell’educazione che tengo all’Università di Ferrara. Uno dei suoi adagi è: “L’errore non è altro che un’occasione di apprendimento”. In trent’anni di lavoro, Franca Moretti non ha mai smesso di studiare e di approfondire le tematiche di area pedagogica e di pedagogia speciale, legate alla disabilità.

La Moretti, durante la lezione di quest’anno, ha spiegato: “Se un bambino sente ‘quattordici’ e invece scrive ‘41’ potrebbe essere considerato disgrafico. Ma se pensiamo al suono, cosa arriva per primo? Il quattro, non l’uno. Quindi, anche in questo caso, l’errore può essere un’occasione di apprendimento, se non ci fermiamo subito e unicamente al giudizio”.


Uno dei metodi che Franca ama è quello sviluppato da Jaques Dalcroze, pedagogista e musicista svizzero. Nel suo trattato “Il ritmo, la musica, l’educazione” Dalcroze si chiede da dove provengono le difficoltà e le inibizioni che tanti adulti incontrano di fronte alla richiesta di esprimersi in un linguaggio che non sia quello verbale a cui sono abituati. E la risposta è che tutti siamo terrorizzati dalla paura di sbagliare. Sbagliare, addirittura, per qualcuno significa sbriciolarsi, perdere la propria identità. L’errore è un macigno che richiede un tempo emotivo infinito per essere superato. Abbiamo paura di non riuscire, di sfigurare e di essere giudicati e derisi dagli altri. Solo superando questa paura, uscendo dalla propria comfort zone, rendiamo significativo il nostro apprendimento. Non si apprende solo sui libri, si apprende dalla pratica. E in pratica si sbaglia.

Nella nostra cultura l’errore non è accettato: in azienda si mistificano gli errori, ci si deresponsabilizza, si scaricano le colpe sugli altri o si finge di non aver sbagliato. Qualche tempo fa, ho avuto in aula una ragazza che ha raccontato di aver prodotto 30 scarti prima di fermarsi, perché era terrorizzata dall’idea di essere scoperta e punita.

Come si fa a superare questa paura? Si accetta di poter sbagliare, ci si assumono le proprie responsabilità, si sbaglia anche mille volte per arrivare a conoscersi meglio, a perdonarsi, diventando anche più sicuri di sé. I grandi campioni dello sport ce lo insegnano. Qualche tempo fa Michael Jordan, in una pubblicità della Nike, diceva di sé: “Ho sbagliato più di novemila tiri nella mia carriera. Ho perso quasi trecento partite. Per 26 volte mi è stato affidato il tiro della vittoria e l’ho mancato. Ho fallito ancora, ancora e ancora nella mia vita. Ecco perché ho vinto”.


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